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VARIE...GATE

GREEN GLOBAL RELATIONS

testo e foto di Gianni Boattini - giugno 2020

Due linee orizzontali, di puro bianco, che si schiudono a semicerchio. Al centro due punti equidistanti. Sono i tratti salienti, significativi del logo che i due artisti, Livio Cassiani Ingoni e Franco Terralavoro hanno creato per la loro performance dal titolo, Green Global Relations. Il segno, adagiato su uno sfondo di fogliame verde, traccia la grafia minimalista di due corpi umani sdraiati in posizione contrapposta ma comunicanti e allo stesso tempo evidenzia, staccandosi dalla prima forma, il volto stilizzato di un essere arcaico, privo di bocca, che volge lo sguardo al piano frontale.

 

Il tentativo dei due artisti è quello di elargire, con la loro performance, una germinazione interattiva di legami espressivi riconducibili ad uno stato dell’arte privo di confini spazio-temporali. O meglio di produrre, per così dire, una simbolica frantumazione materica necessaria per veicolare l’ascesa, verso l’alto, della semenza creativa. Il sentiero, scelto dai due performers si srotola con un’apertura nel verde inteso come colore di contaminazione espressiva, interpretativa, creativa, visiva per poi giungere alla più primitiva naturis. Loro intenzione, è quella di creare una comunanza di reazioni a raggiera tra artisti, tra persone qualsiasi capaci di provocare una rapsodia sintonizzata sulla frequenza oscillatoria del colore verde. Colore, che nello spettro elettromagnetico si trova al centro dei sette a noi percepibili. Con la Green Global Relations, Livio Cassiani Ingoni e Franco Terralavoro, vogliono evidenziare anche un altro aspetto importante; il legame inscindibile che l’Uomo vive, da sempre, con la Natura. Madre primordiale e foresta generatrice di mondi nascosti e immaginari.

I due artisti, vestiti di solo bianco e di nero, cromia voluta per significare gli opposti che si attraggono si sono incontrati, il 7 giugno scorso, presso la grande cascata di Tivoli dove, una volta arrivati sul luogo, hanno inscenato la gestualità rappresentativa della loro performance formando, con i loro corpi distesi di schiena, una linea comunicante sopra un manto verde di erba.

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MASSIMO SARETTA, UN’IDEA DI INDIA

testo di Gianni Boattini - 2020

foto di Massimo Saretta

Non c’è nulla in India che non sia intriso di frammenti sensoriali, percettivi capaci di disossare anche il più radicale pensiero umano. Alcuni dicono che dall’India ritorni a casa da ”morto”. Allusione, qui intesa come presa di coscienza dell’Io trascendentale profondo. Comunque sia, l’India è una terra che non nasconde nulla e non ti nasconde nulla. È un paese foggiato da diverse realtà esistenziali e religiose di non facile interpretazione.

 

In, Un’idea di India, Massimo Saretta, ha orientato la sua ricerca narrativa in direzione dei versanti più remoti del suo racconto. È riuscito a tenere in equilibrio, senza smisuratezze eccessive, immagini dai contenuti forti, come quelle dedicate alla cremazione delle salme in riva al Gange in contrasto a quelle rivolte alla vita o alla gioia di un bimbo felice di giocare su una rudimentale giostra azionata a mano. Le opere fotografiche di Massimo Saretta trasudano di colori. Di volti e di gente con il sorriso sempre stampato sulla bocca. Persino la morte e la povertà appaiono prive di dramma. Tutto scorre senza dolore apparente tra le strade colme di immondizia, di topi. Sbalorditive la statuaria, le decorazioni degli imponenti luoghi di culto. Cosicché, la ritrattistica raffigurante alcuni fedeli mentre vengono sbarbati e tosati prima di entrare nel tempio. Oltre ai colori le immagini sono permeate anche da una forte presenza di spiritualità, di religione. L’india è uno dei paesi dove convivono insieme induismo, islamismo, buddismo, cristianesimo, giainismo, carsismo e sikhismo.

 

Massimo Saretta, in questo suo racconto fotografico evidenzia, con abili capacità espressive, non una figura umana afflitta dal suo precario stato esistenziale in cui versa. Al contrario, le sue figure sferzano vitalità, speranza benché in queste sue opere tutto sembra essere il contrario di tutto. Come in un specchio riflesso.

 

In mostra è possibile vedere anche alcune immagini che ritraggono donne. Una realtà, quella femminile, ancora molto discriminata in India a cui, Massimo Saretta, ha voluto comunque dare risalto. Le immagine esposte sono il frutto di circa otto anni di lavoro. Di dedizione verso un mondo, l’India, complesso nei suoi significati interpretativi. Difficile da accettare. Un mondo sicuramente suggestivo sul piano emotivo e sensoriale ma che a volte lascia, in chi lo vive o in chi lo cerca, un gusto di estraniazione. Di fuga e di ritorno.

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ANTONIO CANOVA A PALAZZO BRASCHI

foto e testo di Gianni Boattini

Sorprende, vedere nel cortile interno di Palazzo Braschi una riproduzione esatta di, Amore e Psiche, realizzata in marmo da un braccio robotico coordinato da un sofisticatissimo software di ultima generazione. Robotor, questo il nome dell’arto intelligente, è riuscito, in poco più di dieci giorni, a scolpire ciò che Canova realizzò in cinque anni. E pensare, che dopo la morte dello scultore il fratello, Giovanni Battista Antonio, per evitare possibili riproduzioni fraudolenti portò a Possagno, nella dimora di famiglia, tutti gli originali in gesso fino ad allora custoditi nello studio romano del maestro scultore.

L’iniziativa di un Robotor capace di riprodurre, in una manciata di giorni, delle statue è sicuramente strabiliante sennonché allarmante se si orienta il dibattito sulla riproducibilità dell’Arte o sui significati, profondi, relativi alla messa in opera dell’atto creativo. Che l’intelligenza artificiale arrivasse, prima o poi, a rivoluzionare il contesto delle arti era di per sé scontato. Rimane da chiedersi a questo punto quale sarà, in futuro, il ruolo di un artista o quello ancora più profondo di pensare o di fare Arte.

Salita la rampa di scale, trovo ad accogliermi un grande dipinto di Pompeo Batoni raffigurante Papa Pio VI Braschi. Poco più in là, di minori dimensioni, un ritratto di Antonio Canova realizzato da Martino De Boni. Una scelta, direi, più che appropriata di collocare i due dipinti nella stessa sala considerando che il Canova fu introdotto nei salotti della nobiltà romana proprio dallo stesso Papa e dall’allora ambasciatore veneziano, Gerolamo Zulian. La mostra, infatti, riassume il lungo periodo storico artistico vissuto a Roma dallo scultore veneziano che, in un primo momento, non fu bene accolto dall’entourage artistico dell’urbe per via delle sue scelte espressive, estetiche troppo simili a quelle della statuaria greca e romana antica. Una tiritera a cui il Canova era solito rispondere di non avere, signori, le capacità di copista ma di idealizzatore del bello sublimato.

Superate le prime stanze dei cosiddetti personaggi illustri ritratti in dipinti e altri scolpiti nel marmo da artisti contemporanei al Canova giungo nella sala dedicata ad alcuni suoi disegni raffiguranti i giganteschi Dioscuri di Monte Cavallo (attuale Quirinale). A seguire, le stanze dedicate ai lavori, in bozze preparatorie, dei due monumenti funerari destinati a Clemente XIV e a Clemente XIII Rezzonico. Nel primo monumento, il braccio teso, benedicente del Papa ricorda quello del Marco Aurelio (al Campidoglio). L’altro sepolcro fu, invece, vittima di numerose critiche da parte di alcuni detrattori che lamentavano inconcepibile e immorale la nudità del Genio della Morte.

Emozionante è stato poi l’incontro avuto con le due statue dell’Amorino e della Maddalena Penitente. Tutte e due contaminate da una luce spoglia di fisicità. Scaturita dall’interno. Su un marmo lucente privo di odori materici e di “…senza morte”. Non da meno sono i gessi che si incontrano sul percorso. Benché levigati e resi lucidi non emanano le stesse emozioni dei lavori in marmo. Sicuramente danno un’idea, questo sì. Ma niente di più. A mio parere, fin troppi sono i calchi in gesso esposti in questa mostra ma capisco che riunire gli originali, per ovvie ragioni logistiche, non sarebbe stato possibile. Nella sala dedicata alla raffigurazione dell’atelier dello scultore sito a quei tempi, in Via delle Collonnette (Roma), abbiamo una visone di come il maestro realizzasse le sue opere.

Superati i lavori destinati al monumento funerario degli ultimi Stuart vengo accolto dalla folgorante bellezza delle immagini fotografiche che il maestro, Mimmo Jodice, realizzò sulla statuaria del maestro veneziano, nel 1992.

Assolutamente azzeccata, oserei dire, l’idea di porre il sublime marmo della Danzatrice poco prima dell’uscita. E di averlo posizionato, ruotante, in un rimando di specchi. Un effetto sensoriale unico. Travolgente.

FRANCO TERRALAVORO,

MUSICA SENZA DIMORA

foto e testo di Gianni Boattini

Anche nella musica, per chi lo conosce, non poteva essere altro che il jazz ad interessarlo benché agli esordi della sua carriera musicale la rottura degli schemi introdotti dal rock progressivo lo resero conscio di quale potenza espressiva e compositiva potesse avere questo nuovo genere di musica proveniente dall’Inghilterra. Musicalmente autodidatta, decisione non determinata da carenze formative, Franco Terralavoro, inserisce nelle sue composizioni metodi interpretativi diversi fino ad arrivare a indocili composizioni. Le sue melodie ruotano in un vortice libero da schemi definiti. A volte esasperanti, adultere, estreme. Tutto sembra cadere in un caotico girone dantesco per poi risalire tra impulsi musicali, sensoriali capaci di destare l’Io più profondo. Nelle sue composizioni sono presenti anche molti suoni arcaici, primitivi. Miscelati, legati alla Madre Terra a cui, Franco Terralavoro, si sente di appartenere.

 

Definirlo unicamente un jazzista è impossibile. Anche perché non ama definirsi o essere definito. In lui, si trovano numerose contaminazioni che non aiutano di certo a classificarlo in un determinato stile o genere. Ogni certezza, convinzione si smentiscono allo stesso tempo. Di assodato è che il suo genere di musica tende spesso alla sperimentazione. L’impressione a volte, è quella per assurdo, che voglia andare oltre la scala musicale conosciuta per trovare altre sonorità possibili benché non si limiti a sfruttare quelle già esistenti.

Franco Terralavoro

NON TUTTE LE CIAMBELLE RIESCONO CON IL BUCO

foto e testo di Gianni Boattini - 2020

Forse, progettualmente qualcosa non ha funzionato. Oppure l’artista scultore non è riuscito a dare, a questo suo progetto, il meglio di sé. Comunque sia, qualcosa sicuramente non è andata come doveva andare. E il fatto che il monumento non sia citato da nessuna fonte fa pensare male. Oggi, questa fontana monumento, occupa uno spazio attiguo all’area giochi di un comune immerso nel paesaggio dei Monti Lepini. Tra Gavignano e Carpineto.

La prima cosa che infastidisce nel guardarlo è il rapporto dei volumi tra il busto striminzito e il basamento cilindrico possente. Una massa sproporzionata di vuoti e pieni difficile da sostenere da critiche favorevoli. Il busto, infatti, non viene esaltato nel suo insieme ma ridotto allo stremo della sua forma. A peggiorare la struttura è anche il blocco di marmo che lo scultore ha posto direttamente sotto il busto. Blocco, sostenuto a sua volta da una ulteriore pedana in cemento di forma esagonale. Tutto si proietta su uno “strato su strato” senza seguire una logica, almeno minima direi, di armonia volumetrica.

Difficile poi non commentare di come lo scultore abbia agito nel dare forma al volto del personaggio rappresentato. I tagli anatomici sono incisi duramente. Interrotti. Sfaccettati a tal punto che il volto sembra essere sfigurato da orribili cicatrici. Persino la capigliatura stenta ad essere credibile. Sconcertante è anche la scelta di aver privato il personaggio da un taglio conclusivo relativo alle spalle che in questo caso sono state tolte del tutto lasciando, alla forma, una menomazione incomprensibile e slavata. Nella statuaria antica come in quella contemporanea il taglio delle spalle viene sempre potenziato dai panneggi dell’abito indossato. E solitamente praticato all’altezza della linea pettorale. Qui, invece non abbiamo alcun disegno conclusivo dell’abito, del busto. Niente pieghe o rilievi al di fuori del collo camicia, cravatta e bavero giacca. Tutto si chiude e si conclude in una massa uniforme, compatta che rende il busto appesantito, monco e sgraziato. Discutibili anche le tre teste di animali incollate, appiccicate al fusto del basamento cilindrico. Esteticamente impoverite proprio dai rapporti proporzionali sbagliati. Confusi. Inadeguati.

 

Di certo, questa fontana non evidenzia un modello di belle arti. Anzi, si fatica a capire come possa essere stata comunque agevolata per essere inserita in un contesto di arredo urbano e paesaggistico. Vero anche che l’arte è soggettiva. Può piacere e non piacere ma anche l’occhio pretende la sua parte.

UNA SCIA MORTALE NEL TEVERE

foto e testo di Gianni Boattini - 2020

Non avevo mai percorso le sponde del Tevere in bicicletta. Come molti, questo fiume lo guardavo sempre, più o meno, dall’alto. Da sopra i ponti. A piedi o in macchina. Al dire il vero, più in macchina che a piedi. Per me era solo un fiume che seguiva il suo tragitto verso le acque del Tirreno. Un qualcosa di scontato, fatto di storia, di racconti, epoche, vicissitudini.

 

Di biondo, al Tevere non è rimasto più nulla. Già dalle prime pedalate realizzo una condizione ambientale deprecabile. Fasce di putridume sono presenti nella parte più interna dell’argine dove l’acqua, rallentata da un groviglio di rifiuti, ristagna tra olezzi di marciume sgradevole. C’è di tutto su quell’acqua brunastra: bottiglie di birra vuote, sacchetti di plastica, scarpe, bombolette spray, lattine di scatolame e molto altro ancora. Persino la vegetazione ha una tinta di un verde decomposto poco raccomandabile.

 

Strada facendo, subito dopo aver superato ponte Sisto, mi trovo davanti ai resti abbandonati di un grande barcone distrutto da un incendio. Una sorta di mostro contorto, deforme, lasciato lì senza una meta. Più avanti, un forte odore pungente mi prende alla gola. Un lezzo cadaverico. Guardo in basso, sull’acqua. Decine di pesci gonfi di morte galleggiano in più punti del fiume. Alcuni hanno il ventre aperto e le interiora fuori. Altri, ridotti a pezzi, vengono masticati dai gabbiani. Uno scenario raccapricciante che si ripete per metri e metri.

 

Tornato a casa cerco di capire. Mi collego alla rete internet e leggo che le cause di quella mattanza sono dovute alla presenza nelle acque di sostanze come la cipermetrina, la clotiadinina e di altri diserbanti e insetticidi chimici.

SEMPLICEMENTE, MENAGEATROIS

foto e testo di Gianni Boattini

In un’era di tecnologie avanzate dove tutto viene tradotto in forme binarie, in realtà sintetiche, in simulazioni liquide, acide nei contenuti i Ménageàtrois, band musicale cresciuta nel paesaggio di una Tivoli ricca di storia, sembrano provenire da un altro pianeta della galassia conosciuta. Iconoclasti, con 32 denti sempre pieni di sorrisi. Di simpatia contagiosa la band offre un sound puro, inaspettato. Fatto di poche cose ma non per questo riduttivo sul piano esecutivo ed interpretativo. La prima sensazione che si ha nell’ascoltarli è quella di quando qualcuno si sbaglia di suonare il campanello e rimane sorpreso di trovarsi davanti un’altra persona. Questo a dire che i Ménageàtrois sono musicalmente atipici se messi a confronto con le nuove tendenze musicali di oggi.

 

Malgrado ciò la loro scelta di essere, di rimanere minimalisti funziona. Il trio, esordisce nella realtà tiburtina nel 2017 seguendo il solito percorso di pellegrinaggio riservato agli emergenti ovvero quello dei pub, dei locali più o meno noti e delle piazze. Farcito di sole sonorità acustiche il gruppo riscuote, da subito, i suoi primi successi di pubblico. Impossibile scrivere diversamente anche perché i Ménageàtrois sono uniti da una tecnica musicale notevole. Comunque sia, non puoi evitarli quando salgono sul palco. Ti si attaccano addosso. Punzecchiandoti di melodie trascinanti, coinvolgenti. Persino il brusio di fondo del pubblico si spegne quando la voce di Clarissa Dominici inizia a cantare. Non da meno, sono gli altri due musicisti che compongono la band, Ilde Neri e Alessandro Palma. La prima, padroneggia la chitarra in una ritmica di colori blues e di rimandi pop costruiti su una linea melodica essenziale senza virtuosismi esagerati. Ad Ilde sono affidati anche i testi delle canzoni. Testi che traducono storie quotidiane, sentimenti generazionali, sfide sociali e amori in contrasto, sfuggevoli. Alle percussioni troviamo invece, Alessandro Palma, con il suo inseparabile cajon. Una sorta di scatola di legno suonante capace di tuonare, sotto i suoi colpi di mani, meraviglie sonore. Nel loro primo album di esordio dal titolo, Mènageàtrois, di recente produzione, il trio è riuscito a contenere una struttura compositiva priva di saturazioni narrative. Gli arrangiamenti musicali sono bilanciati e offrono a chi li ascolta effetti sensoriali molto piacevoli. Un album autoprodotto, gestito in ogni suo dettaglio. Di certo è che i Ménageàtrois hanno musicalmente ancora molto da dirci.

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